Un'altra
riflessione metacinematografica, che prende spunto da uno dei
passaggi più toccanti e spiazzanti del famoso (e in questi giorni
citatissimo) discorso di Steve Jobs del 2005 ai laureandi di
Stanford:
(…)
La morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in
comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere,
perché la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione
della vita. È l’agente di cambiamento della vita. Spazza via il
vecchio per far posto al nuovo.
In un
attimo, si ribalta il concetto di fine e di lutto, per immaginare una
rinascita e un'ulteriore dimensione della morte, più vicina alla
scoperta che alla tristezza.
Condizionato
da questi pensieri, ho assistito alla proiezione di L'amore
che resta (Restless) diretto da Gus Van Sant, l'ultimo dei romantici
indie, amato cantore dell'inquietudine giovanile americana.
Come
forse saprete, il film – piccolo, raffinato, realizzato su
commissione – è di quelli che, se si legge la trama, andrebbero
evitati come la peste, potenzialmente menagrami e depressivi.
In
breve: l'amicizia e l'amore tra una giovane, elegante e bellissima
malata terminale (la lattea e delicata Mia Wasikowska, la sorella
australiana che Alba Rohrwacher non sapeva di avere) e un altrettanto
giovane dandy (interpretato dal figlio di Dennis Hopper), che è
ritornato alla vita dopo tre mesi di coma e che passa il tempo a
imbucarsi ai funerali di sconosciuti poiché ha mancato quello dei
suoi genitori.
Insomma,
tutto lascia presagire a un “Love Story 2.0”, a un'ondata di
lacrime, colpi bassi, trappole emotive e ricatti sentimentali.
Invece,
L'amore che resta non fa che riprendere - vestendole di delicatezza
lo-fi e di qualche simpatica leziosità – alcune suggestioni del
testamento spirituale di Steve Jobs.
Potenza delle coincidenze?
Condizionamenti personali? Inopportune riflessioni in libertà?
Non lo
so. Ma a volte è bello e utile approfittare di piccoli segnali che
ci arrivano dal'esterno per fermarsi, pensare, immaginare.
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