uno scatto ogni tanto

martedì 8 novembre 2011

Olympic London


In questi giorni le profezie Maya sulla fine del mondo sembrano meno bislacche del solito e pensare al 2012 scoperchia scenari fantascientifici. Tra una catastrofe possibile e un evento certo, però, forse è più piacevole immaginare quest'ultimo. Specie se si tratta delle Olimpiadi.

Dal punto di vista della comunicazione visiva, ammettiamolo, Londra 2012 è partita con il piede sbagliato. A chi è piaciuto il logo ufficiale, presentato in pompa magna da Blair & Co? Sembra a pochissimi, a leggere i commenti sui vari blog e network sociali. 

Chi non ha avuto – almeno per un attimo – la magra consolazione del “tutto il mondo è Paese” quando si è palesata al mondo la complicata composizione geometrica tutta rosa che forma le 4 cifre dell'anno olimpico (e che si può leggere come un incongruamente biblico “Zion”)? 
 
La data dell'inaugurazione si avvicina e qualche nuvola scompare all'orizzonte. 
Dopo l'identità visiva, infatti, in questi giorni sono stati presentati i manifesti ufficiali dei Giochi Olimpici e Paralimpici di Londra 2012. E a prima vista, i risultati sembrano più in linea con la tradizione grafica made in UK: più colore, più fantasia, più impatto, più fermento creativo. Forse, si registra soltanto un po' di confusione arty e qualche preziosismo snob di troppo.
Tra gli artisti - illustratori ci sono alcune celebrità, da Tracey Emin a Michael Craig-Martin. Cosa ne pensate?

A chi interessa, i manifesti sono esposti e in vendita in edizione limitata alla Tate Britain durante il London 2012 Festival.

mercoledì 26 ottobre 2011

Straziami, ma di baci saziami

E' proprio vero, ognuno deve trovare il proprio modo di esprimersi...
Imparate da Natalie Irish che crea le sue opere d'arte con i baci.
Sì avete capito bene, la talentuosa ragazza compone immagini di personaggi famosi a colpi di baci!
Incredibile, chi sa quante case produttrici di rossetto le faranno la corte!


martedì 25 ottobre 2011

Il senso di Lars per la Melancholia

La depressione secondo Lars Von Trier si chiama Melancholia, come il titolo della celebre incisione cinquecentesca di Durer, come la "bile nera" dei medici dell'antica Grecia, come un film crudele e pastoso, apocalittico e confuso, elegantissimo e senza speranza, che inizia come "Festen" e finisce come una versione bergmaniana e intima di "Armageddon".

Melancholia è il nome di un pianeta in rotta verso la Terra, che nello scontro, presto la distruggerà.

"Melancholia" è il diario filmato di un depresso geniale. La sua terapia diventa - forse - una condanna per gli spettatori: angoscia, lentezza anticlimax, confusione, un mix apparentemente insensato di silenzi allarmanti e Wagner sparato a tutto volume.

Se si superano una serie di ostacoli, però, alla fine c'è una ricompensa emotiva e filosofica. Immagini che resteranno, inquadrature affascinanti e sapienti, pensieri alti, domande esistenziali che spiazzano e suscitano reazioni.

"Melancholia" è meno disturbante di "Antichrist" e più massimalista di "Dogville". Naturalmente, le imperdonabili sparate filonaziste del regista all'ultimo Festival di Cannes hanno fatto un cattivissimo servizio al film, che si nutre di disagi e malessere, ma anche di una provocazione davvero autentica e interessante.

Il film è diviso in tre parti. C'è un breve prologo visionario e anticipatore, che attinge da inquietanti suggestioni pittoriche della storia dell'arte, tra Fiamminghi e espressionismo. Seguono i due capitoli dedicati alle due sorelle protagoniste. La bionda infelice e la bruna razionale. La sposa intorpidita e senza volontà e la moglie e madre aggraziata e fragile. La figlia minore che ride ma sembra altrove, attorcigliata intorno al suo dolore indicibile e la sorella maggiore che accudisce e organizza, ama e odia, si ribella e ubbidisce.

C'è una sontuosa festa di nozze in una dimora altrettanto sontuosa affacciata sul mare scandinavo. C'è una limousine bianca che va fuori strada, presagio di una serie di catastrofi successive. C'è un wedding planner isterico (e con il ghigno di Ugo Kier), un cognato scienziato ricchissimo, cafone e positivista (Kiefer "24" Sutherland, disturbante come il padre nei film degli anni '70), un padre gaudente e bigamo, una madre sprezzante e anticonformista (con i lividi occhi di ghiaccio di Charlotte Rampling), invitati molesti, un datore di lavoro vendicativo, uno sposo innamorato e comprensivo che alla fine non ce la fa e se ne va. C'è il palpabile disagio di una donna che nel giorno in cui dovrebbe essere massimamente felice, protagonista e oggetto di troppe aspettative borghesi, si nasconde, cade addormentata, gioca con il nipotino, scopa con uno a caso, si rifugia tra le ombre e i ricordi di un'infanzia che presumiamo difficile e triste.

Ma la malinconia individuale della sventurata e quasi veggente Kirsten Dunst (brava e coraggiosa, con la sua bellezza nordica, i movimenti sgraziati e i lineamenti da bambina paffuta) si trasforma nel secondo capitolo nella minaccia sempre più concreta della "melancholia" universale: il bel pianeta azzurrino che minaccia la Terra, inesorabile e pericoloso nonostante gli scienziati minimizzino i rischi.  Protagonista qui è la sorella Claire (Charlotte Gainsbourg, alla seconda prova consecutiva con Von Trier, impeccabile, vibrante ed elegantissima anche nei momenti di massima disperazione), l'anima assennata e per bene della famiglia, attanagliata dalla paura per il futuro.

Il suo terrore inutile e vano - così comprensibile, così umano - diventa la chiave per entrare nel cuore del pessimismo sul mondo e sull'umanità che il film presenta e crudelmente impone. Ma se il mondo borghese crea solo sofferenza e crudeltà, se i riti sociali sono frequentati soltanto da maschere grottesche, se la Terra brucerà, se l'umanità è destinata all'estinzione, forse solo i pazzi (o i depressi) avranno il privilegio di vivere tutto questo con uno stato d'animo pacificato, lucido e in qualche modo eroico.

lunedì 24 ottobre 2011

Claudia Lotta :: Sweet Designer

ph. Simone Piccirilli

Semplice! firma l'immagine della backery della sweet designer Claudia Lotta, inaugurata proprio lo scorso sabato.
Dolci belli e buoni, provare per credere...
Via Bonafous 7 -  Torino

www.claudialotta.it 

venerdì 21 ottobre 2011

Lo voglio più grande!


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martedì 18 ottobre 2011

confusione...

mercoledì 12 ottobre 2011

Tra amore e morte


Un'altra riflessione metacinematografica, che prende spunto da uno dei passaggi più toccanti e spiazzanti del famoso (e in questi giorni citatissimo) discorso di Steve Jobs del 2005 ai laureandi di Stanford:

(…) La morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere, perché la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. È l’agente di cambiamento della vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo.

In un attimo, si ribalta il concetto di fine e di lutto, per immaginare una rinascita e un'ulteriore dimensione della morte, più vicina alla scoperta che alla tristezza.
Condizionato da questi pensieri, ho assistito alla proiezione di L'amore che resta (Restless) diretto da Gus Van Sant, l'ultimo dei romantici indie, amato cantore dell'inquietudine giovanile americana.

Come forse saprete, il film – piccolo, raffinato, realizzato su commissione – è di quelli che, se si legge la trama, andrebbero evitati come la peste, potenzialmente menagrami e depressivi. 
In breve: l'amicizia e l'amore tra una giovane, elegante e bellissima malata terminale (la lattea e delicata Mia Wasikowska, la sorella australiana che Alba Rohrwacher non sapeva di avere) e un altrettanto giovane dandy (interpretato dal figlio di Dennis Hopper), che è ritornato alla vita dopo tre mesi di coma e che passa il tempo a imbucarsi ai funerali di sconosciuti poiché ha mancato quello dei suoi genitori.
Insomma, tutto lascia presagire a un “Love Story 2.0”, a un'ondata di lacrime, colpi bassi, trappole emotive e ricatti sentimentali.

Invece, L'amore che resta non fa che riprendere - vestendole di delicatezza lo-fi e di qualche simpatica leziosità – alcune suggestioni del testamento spirituale di Steve Jobs. 

Potenza delle coincidenze? Condizionamenti personali? Inopportune riflessioni in libertà?
Non lo so. Ma a volte è bello e utile approfittare di piccoli segnali che ci arrivano dal'esterno per fermarsi, pensare, immaginare.