uno scatto ogni tanto

mercoledì 9 novembre 2011

Non sono Sokurov che...


Bisogna essere un po' pazzi e masochisti per andare dopo una lunga giornata di lavoro, da soli, a piedi sotto la pioggia battente, senza cena né caramelle in tasca, a vedere il Faust di Alexander Sokurov (134').
Non sono un devoto della poetica visionaria e solenne del grande regista russo amico di Eltsin, autore dello straziante (e funereo) Madre e Figlio e dello sperimentale (e ipercerebrale) Arca Russa.
Non sono un incondizionale della sua celebrata “tetralogia del potere” di cui Faust è l'ultimo capitolo, dopo gli spietati ritratti dedicati a Hitler (Moloch, bellissimo), Lenin (Taurus, noiosissimo), Hiro Hito (Il Sole, non pervenuto).

Ma come lasciarsi scappare il Leone d'Oro dell'ultimo Festival di Venezia, assegnato da una giuria unanime e in deliquio? Come perdersi il film del momento, destinatario di così tante palline, stelline, recensioni entusiastiche, nonché di tutti i sinonimi dell'aggettivo “sublime”?
Ci sono andato, lo ammetto, con lo spirito devoto e leggermente intimorito del pellegrino non allenato, che prima di cominciare il Cammino di Santiago mette la confezione di Compeed nello zaino e spera che vada tutto bene.

La visione, tra l'altro, è stata in parte rovinata e in parte “drammatizzata” da una sorta di psicodramma avvenuto durante la proiezione, in un cinema d'essai nella piazza più aristocraticamente salottiera del centro di Torino: una spettatrice dal severo look parigino è stata prima minacciata verbalmente e poi aggredita fisicamente (con una bottiglietta d'acqua e a mani nude) da un gruppo di spettatori esasperati dalla sua abitudine - di certo intellettuale, ma invero fastidiosa - di illuminare con una torcia fortissima il bloc notes sui cui prendeva appunti, squarciando ripetutamente il buio della sala.

Non nascondo che la luce nervosa della torcia, la rissa scoppiata e poi domata, le urla sparse (davvero diaboliche, in coerenza semantica con il film) hanno dato alla mia visione un surplus di emotività e di disagio, ma anche una partecipazione ancora più concentrata e intensa a questo horror esistenziale d'autore che – come tutti gli horror – più lo respingi e più ti attrae, più lo senti lontano e insostenibile, e più ti entra dentro.

Come si sa, Faust rilegge uno dei miti fondativi della cultura tedesca: quella del dottor Faust, appunto, il medico affamato di conoscenza, ma anche di potere, denaro e bramosia sessuale, che finirà con il vendere l'anima al diavolo.

Il film è ispirato soprattutto al Faust di Goethe, capolavoro assoluto della letteratura tedesca, di cui prende ambientazioni e argomentazioni filosofiche.
In scena, infatti, c'è un piccolo e sporco villaggio tedesco ottocentesco, abitato da un'umanità dolente: poveri cristi che si schiacciano l'uno contro l'altro, donne ignoranti e uomini violenti, soldati che tornano dal fronte, malati e moribondi dappertutto. In mezzo a questo angolo abbrutito d'occidente - quasi un presagio di una società avida e impoverita da una drammatica crisi finanziaria - si muove il dottor Faust, interpretato con energia e talento dall'attore tedesco Johannes Zeiler: sempre inquieto, curioso, filosofeggiante, affamato e vorace, insonne, avido di sapere, iperattivo, senza soldi. 

All'inizio (dopo un bel prologo poetico con uno specchio che fluttua sopra le nuvole di un cielo tempestoso) lo vediamo praticare un'autopsia su un cadavere maschile squartato e già decomposto. Anzi, del cadavere si vede prima di tutto – e in primo piano - il pene grigiastro, forse per simmetria simbolica con l'immagine, verso il finale, del dorato cespuglietto pubico della giovane Margarethe, addormentato oggetto d'attrazione del medico, a quel punto già definitivamente corrotto.

Con spudorata ambizione, scenografie povere ma accurate e una fiducia totale nei mezzi espressivi del cinema tradizionale, Sukurov conferisce a Faust un'umanità fragile e fin troppo carnale, una triste consapevolezza del male che è in ciascuno di noi, una perenne insoddisfazione esistenziale che appare molto contemporanea.
Attorno a lui si muove – come in un incubo di Cronemberg, un girone dantesco o un quadro di Bosch - un'umanità ammassata, esasperata, putrescente, se non già morta. 

In questo contesto, illuminato da una lugubre fotografia verdastra, anche Mefistofele non ha la terribile grandezza del male assoluto. Anzi, è un mediocre usuraio, uno squallido faccendiere deforme, con il pene attaccato al sedere. Il patto è scellerato, ma vale poco (qualche moneta, un'unica notte d'amore, per altro non consumata, con la giovane e lucente Margaretha) ed è inevitabile: anche la tentazione diabolica non è vista come un atto eccezionale, a suo modo eroico, ma è solo la conseguenza logica di una condizione umana ai minimi termini. Non a caso, infatti, davanti alla bottega del diavolo c'è la fila, e tutti sono disposti a piccole e grandi corruzioni.

Ragionamenti forbiti sull'anima e le sue caratteristiche, dubbie pratiche ospedaliere, funerali suggestivi come una rappresentazione ronconiana, una passeggiata tra boschi incantati che diventa un lungo corteggiamento morboso, il viso gonfio di una lunare e irriconoscibile Hanna Schygulla, pediluvi nelle ortiche, calzini sporchi annusati con maliziosa sapienza fetish, creature diaboliche mascherate che appaiono all'improvviso, un finale tragico e quasi romantico tra crepacci e fumanti geyser islandesi... 

Se si è disposti ad accettare tutto questo e a non perdersi tra i dialoghi altissimi e in mezzo a tanta immaginifica devastazione, la ricompensa è alta. O per lo meno, originale e assortita. Serve altro?



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