E' proprio vero, ognuno deve trovare il proprio modo di esprimersi...
Imparate da Natalie Irish che crea le sue opere d'arte con i baci.
Sì avete capito bene, la talentuosa ragazza compone immagini di personaggi famosi a colpi di baci!
Incredibile, chi sa quante case produttrici di rossetto le faranno la corte!
mercoledì 26 ottobre 2011
Straziami, ma di baci saziami
martedì 25 ottobre 2011
Il senso di Lars per la Melancholia
La depressione secondo Lars Von Trier si chiama Melancholia, come il titolo della celebre incisione cinquecentesca di Durer, come la "bile nera" dei medici dell'antica Grecia, come un film crudele e pastoso, apocalittico e confuso, elegantissimo e senza speranza, che inizia come "Festen" e finisce come una versione bergmaniana e intima di "Armageddon".
Melancholia è il nome di un pianeta in rotta verso la Terra, che nello scontro, presto la distruggerà.
"Melancholia" è il diario filmato di un depresso geniale. La sua terapia diventa - forse - una condanna per gli spettatori: angoscia, lentezza anticlimax, confusione, un mix apparentemente insensato di silenzi allarmanti e Wagner sparato a tutto volume.
Se si superano una serie di ostacoli, però, alla fine c'è una ricompensa emotiva e filosofica. Immagini che resteranno, inquadrature affascinanti e sapienti, pensieri alti, domande esistenziali che spiazzano e suscitano reazioni.
"Melancholia" è meno disturbante di "Antichrist" e più massimalista di "Dogville". Naturalmente, le imperdonabili sparate filonaziste del regista all'ultimo Festival di Cannes hanno fatto un cattivissimo servizio al film, che si nutre di disagi e malessere, ma anche di una provocazione davvero autentica e interessante.
Il film è diviso in tre parti. C'è un breve prologo visionario e anticipatore, che attinge da inquietanti suggestioni pittoriche della storia dell'arte, tra Fiamminghi e espressionismo. Seguono i due capitoli dedicati alle due sorelle protagoniste. La bionda infelice e la bruna razionale. La sposa intorpidita e senza volontà e la moglie e madre aggraziata e fragile. La figlia minore che ride ma sembra altrove, attorcigliata intorno al suo dolore indicibile e la sorella maggiore che accudisce e organizza, ama e odia, si ribella e ubbidisce.
C'è una sontuosa festa di nozze in una dimora altrettanto sontuosa affacciata sul mare scandinavo. C'è una limousine bianca che va fuori strada, presagio di una serie di catastrofi successive. C'è un wedding planner isterico (e con il ghigno di Ugo Kier), un cognato scienziato ricchissimo, cafone e positivista (Kiefer "24" Sutherland, disturbante come il padre nei film degli anni '70), un padre gaudente e bigamo, una madre sprezzante e anticonformista (con i lividi occhi di ghiaccio di Charlotte Rampling), invitati molesti, un datore di lavoro vendicativo, uno sposo innamorato e comprensivo che alla fine non ce la fa e se ne va. C'è il palpabile disagio di una donna che nel giorno in cui dovrebbe essere massimamente felice, protagonista e oggetto di troppe aspettative borghesi, si nasconde, cade addormentata, gioca con il nipotino, scopa con uno a caso, si rifugia tra le ombre e i ricordi di un'infanzia che presumiamo difficile e triste.
Ma la malinconia individuale della sventurata e quasi veggente Kirsten Dunst (brava e coraggiosa, con la sua bellezza nordica, i movimenti sgraziati e i lineamenti da bambina paffuta) si trasforma nel secondo capitolo nella minaccia sempre più concreta della "melancholia" universale: il bel pianeta azzurrino che minaccia la Terra, inesorabile e pericoloso nonostante gli scienziati minimizzino i rischi. Protagonista qui è la sorella Claire (Charlotte Gainsbourg, alla seconda prova consecutiva con Von Trier, impeccabile, vibrante ed elegantissima anche nei momenti di massima disperazione), l'anima assennata e per bene della famiglia, attanagliata dalla paura per il futuro.
Il suo terrore inutile e vano - così comprensibile, così umano - diventa la chiave per entrare nel cuore del pessimismo sul mondo e sull'umanità che il film presenta e crudelmente impone. Ma se il mondo borghese crea solo sofferenza e crudeltà, se i riti sociali sono frequentati soltanto da maschere grottesche, se la Terra brucerà, se l'umanità è destinata all'estinzione, forse solo i pazzi (o i depressi) avranno il privilegio di vivere tutto questo con uno stato d'animo pacificato, lucido e in qualche modo eroico.
Melancholia è il nome di un pianeta in rotta verso la Terra, che nello scontro, presto la distruggerà.
"Melancholia" è il diario filmato di un depresso geniale. La sua terapia diventa - forse - una condanna per gli spettatori: angoscia, lentezza anticlimax, confusione, un mix apparentemente insensato di silenzi allarmanti e Wagner sparato a tutto volume.
Se si superano una serie di ostacoli, però, alla fine c'è una ricompensa emotiva e filosofica. Immagini che resteranno, inquadrature affascinanti e sapienti, pensieri alti, domande esistenziali che spiazzano e suscitano reazioni.
"Melancholia" è meno disturbante di "Antichrist" e più massimalista di "Dogville". Naturalmente, le imperdonabili sparate filonaziste del regista all'ultimo Festival di Cannes hanno fatto un cattivissimo servizio al film, che si nutre di disagi e malessere, ma anche di una provocazione davvero autentica e interessante.
Il film è diviso in tre parti. C'è un breve prologo visionario e anticipatore, che attinge da inquietanti suggestioni pittoriche della storia dell'arte, tra Fiamminghi e espressionismo. Seguono i due capitoli dedicati alle due sorelle protagoniste. La bionda infelice e la bruna razionale. La sposa intorpidita e senza volontà e la moglie e madre aggraziata e fragile. La figlia minore che ride ma sembra altrove, attorcigliata intorno al suo dolore indicibile e la sorella maggiore che accudisce e organizza, ama e odia, si ribella e ubbidisce.
C'è una sontuosa festa di nozze in una dimora altrettanto sontuosa affacciata sul mare scandinavo. C'è una limousine bianca che va fuori strada, presagio di una serie di catastrofi successive. C'è un wedding planner isterico (e con il ghigno di Ugo Kier), un cognato scienziato ricchissimo, cafone e positivista (Kiefer "24" Sutherland, disturbante come il padre nei film degli anni '70), un padre gaudente e bigamo, una madre sprezzante e anticonformista (con i lividi occhi di ghiaccio di Charlotte Rampling), invitati molesti, un datore di lavoro vendicativo, uno sposo innamorato e comprensivo che alla fine non ce la fa e se ne va. C'è il palpabile disagio di una donna che nel giorno in cui dovrebbe essere massimamente felice, protagonista e oggetto di troppe aspettative borghesi, si nasconde, cade addormentata, gioca con il nipotino, scopa con uno a caso, si rifugia tra le ombre e i ricordi di un'infanzia che presumiamo difficile e triste.
Ma la malinconia individuale della sventurata e quasi veggente Kirsten Dunst (brava e coraggiosa, con la sua bellezza nordica, i movimenti sgraziati e i lineamenti da bambina paffuta) si trasforma nel secondo capitolo nella minaccia sempre più concreta della "melancholia" universale: il bel pianeta azzurrino che minaccia la Terra, inesorabile e pericoloso nonostante gli scienziati minimizzino i rischi. Protagonista qui è la sorella Claire (Charlotte Gainsbourg, alla seconda prova consecutiva con Von Trier, impeccabile, vibrante ed elegantissima anche nei momenti di massima disperazione), l'anima assennata e per bene della famiglia, attanagliata dalla paura per il futuro.
Il suo terrore inutile e vano - così comprensibile, così umano - diventa la chiave per entrare nel cuore del pessimismo sul mondo e sull'umanità che il film presenta e crudelmente impone. Ma se il mondo borghese crea solo sofferenza e crudeltà, se i riti sociali sono frequentati soltanto da maschere grottesche, se la Terra brucerà, se l'umanità è destinata all'estinzione, forse solo i pazzi (o i depressi) avranno il privilegio di vivere tutto questo con uno stato d'animo pacificato, lucido e in qualche modo eroico.
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lunedì 24 ottobre 2011
Claudia Lotta :: Sweet Designer
![]() |
ph. Simone Piccirilli |
Semplice! firma l'immagine della backery della sweet designer Claudia Lotta, inaugurata proprio lo scorso sabato.
Dolci belli e buoni, provare per credere...
Via Bonafous 7 - Torino
www.claudialotta.it
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segnalazioni
venerdì 21 ottobre 2011
Lo voglio più grande!
Impossibile non condividere questo link!
TinEye è un sito che vi permette di trovare la versione più grande di una determinata immagine disponibile sul web. caricate un'immagine o un URL dell'immagine e il programma vi cercherà tutte le versioni presenti sul web si quella stessa immagine. Ordinate i risultati per dimensione e capire subito il file più grande a disposizione.
Vai con la ricerca!
il sito è www.tineye.com
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martedì 18 ottobre 2011
mercoledì 12 ottobre 2011
Tra amore e morte
Un'altra
riflessione metacinematografica, che prende spunto da uno dei
passaggi più toccanti e spiazzanti del famoso (e in questi giorni
citatissimo) discorso di Steve Jobs del 2005 ai laureandi di
Stanford:
(…)
La morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in
comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere,
perché la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione
della vita. È l’agente di cambiamento della vita. Spazza via il
vecchio per far posto al nuovo.
In un
attimo, si ribalta il concetto di fine e di lutto, per immaginare una
rinascita e un'ulteriore dimensione della morte, più vicina alla
scoperta che alla tristezza.
Condizionato
da questi pensieri, ho assistito alla proiezione di L'amore
che resta (Restless) diretto da Gus Van Sant, l'ultimo dei romantici
indie, amato cantore dell'inquietudine giovanile americana.
Come
forse saprete, il film – piccolo, raffinato, realizzato su
commissione – è di quelli che, se si legge la trama, andrebbero
evitati come la peste, potenzialmente menagrami e depressivi.
In
breve: l'amicizia e l'amore tra una giovane, elegante e bellissima
malata terminale (la lattea e delicata Mia Wasikowska, la sorella
australiana che Alba Rohrwacher non sapeva di avere) e un altrettanto
giovane dandy (interpretato dal figlio di Dennis Hopper), che è
ritornato alla vita dopo tre mesi di coma e che passa il tempo a
imbucarsi ai funerali di sconosciuti poiché ha mancato quello dei
suoi genitori.
Insomma,
tutto lascia presagire a un “Love Story 2.0”, a un'ondata di
lacrime, colpi bassi, trappole emotive e ricatti sentimentali.
Invece,
L'amore che resta non fa che riprendere - vestendole di delicatezza
lo-fi e di qualche simpatica leziosità – alcune suggestioni del
testamento spirituale di Steve Jobs.
Potenza delle coincidenze?
Condizionamenti personali? Inopportune riflessioni in libertà?
Non lo
so. Ma a volte è bello e utile approfittare di piccoli segnali che
ci arrivano dal'esterno per fermarsi, pensare, immaginare.
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lunedì 10 ottobre 2011
Les Enfants du Paradis
Per puro caso in settimana mi è capitato di vedere due film francesi recenti: Tutti per uno (Les mains en l'air) del veterano, ex sessantottino e godardiano Romain Goupil e Tomboy, scritto e diretto dalla giovane Céline Sciamma, al suo secondo film.
Il primo è una sorta di favola fantapolitica a tesi, che mette in scena la fuga e la rivolta di un gruppo multietnico di ragazzini parigini, al fine di proteggere e nascondere una loro compagna di scuola cecena, sans-papier a rischio espulsione.
Il secondo è il delicato e intenso ritratto di una preadolescente alla ricerca della propria identità sessuale, che si spaccia per maschio davanti ai suoi nuovi amici.
I due film sono interessanti, originali, rigorosi (più il secondo del primo, a mio avviso). Seppure molto diversi tra loro, hanno qualcosa che li accomuna e che me li ha fatti amare particolarmente.
Si tratta di una peculiarità tipicamente francese, forse legata all'eredità di François Truffaut e del suo folgorante film d'esordio I 400 colpi (Les Quatre Cents Coups): in entrambi i film i bambini non sono protagonisti osservati da uno sguardo adulto, ma diventano “soggetto” della rappresentazione. È loro il punto di vista, e l'autore non osserva i bambini agire o parlare (come spesso succede in tanti film americani, dai capolavori di Spielberg al divertente “Super 8”) ma “diventa” il bambino che agisce, parla e fa le sue scoperte, con spontaneità e senza psicologismi. In questo modo si crea una forte empatia e una totale adesione con il mondo interiore dei piccoli protagonisti, i loro turbamenti e la loro emotività a fior di pelle.
Questa “via francese” al mondo dell'infanzia, se realizzata con maestria, pudore e sensibilità, mi stupisce e mi emoziona ogni volta.
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venerdì 7 ottobre 2011
Fenomenologia del cupcake
I tempi sono duri, durissimi. Gli orizzonti appaiono limitati e sfuocati. Ed è pure scomparso l'ultimo dei grandi visionari contemporanei. Orfani di un paese civile, dell'ottimismo dell'Occidente e di Steve Jobs, non ci resta che aspettare l'arrivo di qualcosa di bello e di buono. Un cupcake, per esempio.
Anche in Italia è scoppiata la moda per questi coloratissimi e dolcissimi dolcetti monoporzione di origine americana. Dai blog ai TVshow culinari, dalle ricette dei trend setter alle foto di decorazioni e vetrine scovate in giro per il mondo, la cupcakemania, figlia golosa della grande crisi contemporanea, dilaga e fa sempre nuovi proseliti.
Tutto ciò che è bello (kalòs) è anche buono (agathòs), diceva Platone, e un cupcake rassicura e ci fa stare bene, forse perché è una delle poche tentazioni legali che ci possiamo ancora permettere.
Anche grazie al tam tam dei creativi e a reality show come “Il boss delle torte”, la pasticceria statunitense, così pannosa, appariscente ed esagerata, è stata sdoganata anche in Italia, terra di solide e celebrate tradizioni dolciarie.
Però un cupcake è qualcosa di diverso. Non è soltanto un trionfo di cromie, zucchero e colesterolo. Specie quando è reinterpretato secondo l'arte e la sensibilità europea (e italiana), diventa davvero una piccola oasi di felicità per gli occhi e per il palato.
E nell'epoca della condivisione, un cupcake è il dolce anti-wiki per eccellenza: ogni manufatto è dedicato a una sola bocca e a un unico gaudente. Va assaggiato e goduto in perfetta solitudine, senza sentirsi in colpa per lo spudorato egoismo del gesto!
Un'amica sta per aprire a Torino una bakery specializzata in cupcakes. Forse riusciremo ad affrontare con un po' di speranza e di ottimismo in più la nebbia (autunnale ed esistenziale) che ci aspetta. Tanti auguri Claudia!
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mercoledì 5 ottobre 2011
Beautiful City, Sexy Butt
Questa campagna affissioni (quattro soggetti) divertente, originale e visivamente raffinata la dedico a chi – come me – nell'ultimo mese ha pestato più di cinque “ricordini canini” camminando, pedalando e correndo per le vie del centro. Anche in infradito e con le suole a carro armato.
Solidarietà creativa!
La dedico anche ai pet owners poco diligenti o distratti: se vi piegate così per raccogliere e pulire, anche Torino, come Belgrado, può diventare più sexy!
McCann Erickson colpisce ancora, anche in Serbia.
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lunedì 3 ottobre 2011
Autunno, cade la musica
Non ci siamo ancora ripresi dalla notizia di dieci giorni fa sulla decisione dei R.E.M. di “call it a day as a band”, che arriva l'amato Ivano Fossati ad annunciare, a sorpresa e in TV, il suo pre-pensionamento: quello in uscita sarà l'ultimo album, e dopo il tour 2011/2012 finirà anche l'attività live, almeno nelle forme tipiche dei concerti organizzati.
Conoscendo la serietà di Fossati, mi pare che questo addio alle scene, così lucido e semplice, non lasci spazio a incertezze o cambi di programma dell'ultimo minuto.
Amo sia i R.E.M. che Fossati da tanto, tantissimo tempo: le loro canzoni mi accompagnano da sempre. Non mi hanno regalato soltanto good vibrations, ma anche nuovi universi culturali, inediti stimoli, occasioni di crescita, ispirazioni e - non ultimo - piacevolissimi e importanti incontri umani.
La notizia che non potrò più assistere a un loro concerto né ascoltare un album o una canzone nuova (con tutto quel groviglio di aspettative ed entusiasmo che spesso portano con sé), inevitabilmente mi rende un po' triste e un po' orfano.
Però, sono anche contento e fiero di seguire con passione artisti tanto coerenti, coraggiosi, indipendenti: uscire di scena con classe e coraggio, nel pieno delle loro potenzialità e facoltà creative, non è da tutti.
Quanti artisti, non solo nel campo della musica, avremmo voluto che si fossero fermati prima? Quanti di loro stanno impolverando una storia gloriosa con un presente poco dignitoso? Se chiediamo alla politica un sacrosanto ricambio generazionale (e io non sono né giovane, né giovanilista), quanto sarebbe opportuno e salutare avere anche un ricambio delle risorse creative? Quanti “venerati maestri” sono diventati dei totem inattaccabili e inamovibili?
Ringraziando Ivano Fossati e la band di Athens per quanto di bello e di buono hanno fatto, condivido dal tubo due canzoni paradigmatiche delle rispettive carriere e che sento particolarmente vicine.
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